Archivio mensile:marzo 2012

Don DeLillo, “Underworld”

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Parla la tua lingua, l’americano, e c’è una luce nel suo sguardo che è una mezza speranza.

È un giorno di scuola, naturalmente, ma lui non c’è proprio, in classe. Preferisce star qui, invece, all’ombra di questa specie di vecchia carcassa arrugginita, e non si può dargli torto – questa metropoli di acciaio, cemento e vernice scrostata, di erba tosata ed enormi pacchetti di Chesterfiled di sghimbescio sui tabelloni segnapunti, con un paio di sigarette che sbucano da ciascuno.

Sono solo i desideri su vasta scala a fare la storia. Lui è solo un ragazzo con una passione precisa, ma fa parte di una folla che si sta radunando, anonime migliaia scese da autobus e treni, gente che in strette colonne attraversa marciando il ponte girevole sul fiume, e sebbene non siano una migrazione o una rivoluzione, un vasto scossone dell’anima, si portano dietro il calore pulsante della grande città e i loro piccoli sogni e delusioni, quell’invisibile nonsoché che incombe sul giorno – uomini in cappello di feltro e marinai in franchigia, il ruzzoli o distratto dei loro pensieri, mentre vanno alla partita.

Profumano di odio quei misteri di Haiti

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Edwidge Danticat, Il profumo della rugiada all’alba, Piemme, pp. 221

di Paolo Bertinetti   

Ka è un’artista haitiana. È nata a New York, dopo che i suoi genitori, quasi quarant’anni prima, avevano lasciato Haiti. E con essa si erano lasciati alle spalle gli orrori del regime dittatoriale di Papà Doc. Ka, insieme al padre, è giunta in Florida per vendere una statua, una figura d’uomo, piegata nella sofferenza, che rappresenta la condizione del popolo haitiano martoriato dalla dittatura. La statua è un ritratto del padre, anche lui vittima di Papà Doc. Ma improvvisamente, il padre, sfregiato da un’impressionante cicatrice, rivela la sconvolgente verità: «ero il cacciatore, non la preda».

Questo ci racconta il primo capitolo del romanzo di Edwige Danticat Il profumo della rugiada all’alba, tradotto limpidamente da Maria Clara Pasetti. Il primo capitolo del libro, come quelli successivi, ha un suo titolo. E ciascuno di essi potrebbe essere letto come un racconto a sé, legato agli altri dal fatto che tutti ci parlano degli emigrati haitiani concentrati a Brooklyn, tutti newyorchesi e tutti ancora haitiani, per lingua (il kreyòl), per abitudini, per pratiche religiose; e tutti accomunati dal ricordo dell’orrore da cui sono fuggiti. Ma soprattutto, come emerge man mano, tutti in qualche modo correlati al padre di Ka.

Lo scandalo delle dittature sta non solo in ciò che infligge alle sue vittime. Sta anche nell’accettazione che inculca in tutti gli altri; e nell’adesione convinta dei miserabili che ne realizzano i delitti. Perché è l’onnipotenza dei regimi che consente ai propri feroci servitori di dare il peggio di sé, di dare sfogo a quanto di più sadico e crudele alberga dentro di loro.

I personaggi dei vari racconti che costituiscono il romanzo ci rivelano le varie facce dello scandalo. Ci sono le vittime delle torture, degli stupri, delle uccisioni efferate. Ci sono i pavidi che fingono di non vedere, o che si fanno complici. Ci sono i torturatori. Uno di essi è in chiesa, alla messa di Natale. Forse è meglio non riconoscerlo, non accettare l’idea di dovere fronteggiare ancora l’orrore.

Un altro è il padre di Ka.

L’ultimo racconto torna indietro nel tempo, al 1967, quando un predicatore protestante, i cui sermoni davano fastidio al regime, doveva essere eliminato. Lui aveva il compito di ucciderlo. Lo aveva preso, seviziato, sbattuto in cella. E alla fine lo aveva ucciso, in un furibondo scatto d’ira dopo essere stato sfregiato dal predicatore, che invece (a palazzo avevano cambiato strategia) doveva essere lasciato andare. A quel punto anche lui, non più utile al regime, non restava che fuggire dall’orrore di cui era stato complice; e di cui avrebbe per sempre portato il segno del volto. Nel racconto finale emergono le risposte al mistero che circondava la vita del padre di Ka, al senso della sua redenzione imperfetta, al suo essere, in fondo, anche lui vittima oltre che carnefice. Il libro di Danticat è una sommessa esplorazione degli abissi di dolore, di umiliazione e di infamia in cui «gli uomini della Provvidenza» precipitano i loro sudditi.

Tuttolibri – SABATO 11 FEBBRAIO 2012 – LaStampa